Voglio raccontarti una storia, per poi iniziare a raccontartene un’altra…
Non avevo mai visto una stanza così buia. Non riuscivo neanche a guardare fuori dalla mia finestra. Non sentivo il rumore della pioggia, non sentivo nulla in realtà. Il vuoto mi circondava e mi riempiva. Non c’era più nulla che mi interessasse.
A volte ti trovi in un buco nero dove la vita sembra non avere più un vero senso. Tutto avviene in automatico. Si tratta dell’abitudine, non è vero? Quella che molti odiano. La mancanza di emozioni. Un tempo ne avevo molte. Ora quelle che ho sono dedicate ai ricordi, quelli che ti prendono allo stomaco e ti danno una sensazione fulminea e ti fanno fare un sospiro.
Avevo appena avuto un forte dolore al cuore. Ero giovane per questo, ma, a volte, una forte emozione è capace di stringerti le arterie e farti credere di essere sul punto di morte. Quando il dolore cessò, aprii gli occhi per capire se era tutto vero oppure mi ero appena risvegliata da un brutto incubo. Non mi interessava se era mattina o sera, per me era buio e freddo e volevo dormire. E fu così che riiniziò la mia seconda vita, quella che non avrei mai pensato di poter vivere.
Ancora non è giorno, ma riesco a sentire le prime voci della città. Un lieve boato segna l’inizio della giornata, il mercato, la gente, la vita… degli altri.
Poi d’un tratto sento il rumore del mare, chiudo gli occhi e rivedo quegli occhi che mi spiazzarono il cuore a tutta velocità. Certo ero più giovane, ma un sentimento non invecchia e vive in qualcuno per ogni giorno della propria vita.
Un sentimento forte non ti abbandona mai.
Avete mai provato una sensazione simile? Io la sto provando ancora adesso. Ma pensate che io sia vedova? Non è così. Io so che lui è da qualche parte. Lui è ovunque. La sua anima e le sue parole sono rimaste qui dentro di me e dentro questa casa. E non sono solo nella mia testa a rimbombare. Sono anche in quella della gente che abita intorno a me.
Forse sarebbe meglio essere stata vedova, almeno sarei riuscita a farmene una ragione ed andare avanti già da tempo. Invece di trovarmi qui a scrivere di noi. La gente tace ancora. Spesso sembra che abbiano paura anche di me. Nessuno mi torce un capello perché sanno che io fui protetta e per sempre lo sarò. Ho come un occhio che veglia su di me. Mi sembra quasi di avere uno scudo davanti.
Molti abbassano gli occhi e la testa quando mi passano accanto. Prima non l’avevo capito. Ero troppo giovane ed ingenua, ma ora sì. E tutto mi appare più chiaro.
Nelle vene di mia figlia scorre sangue di mafia e la gente sente il mio dolore che urla sotto il mio finto sorriso. Ho deciso che parlerò sia a voi, che direttamente a te amore mio ed userò alcune parti della mia vita e del mio diario. Siete tutti parte integrante della storia, che scriverò per capire se ho bisogno di voltare pagina oppure devo continuare ad avere fede ed aspettare.
A volte chiudevo gli occhi perché il rossore dell’aria era troppo forte, ma non capivo perché. Ho sempre voluto vedere quello che volevo e, con questa nuova consapevolezza, ho deciso di raccontarti tutta la nostra storia dal mio punto di vista. Come la vedo adesso sapendo la verità.
Camminavo con quel magone dentro di chi ha bisogno di qualcosa, di chi è rimasto a bocca aperta davanti ad una silenziosa scelta non sua. Questo è quello che mi porta nell’anima il costante ricordo di quei giorni, di quegli anni e di quei momenti forti della mia prima vera vita… Quella con te. Scriverò rivedendo e rivivendo ancora tutte quella scene del mio passato. Un bel respiro e…
Una volta riaperti i miei occhi mi ritrovo nella mia vecchia casa d’infanzia. Ero piccola, dolce ed inconsapevole di quello che succedeva sull’uscio di casa e fuori dalle nostre mura che mi proteggevano dal mondo. Erano loro che sentivano la mia voglia di sapere e di vivere, e che la fermavano allo stesso tempo.
Mi sussurravano di uscire e di guardare il mondo per com’era, ma già non volevo farlo. Abitavo con la mia famiglia a Vittoria, un paesino il cui nome mi faceva pensare ad una principessa. Non so perché, forse il motivo di tanta fantasia era che mio padre mi trattava come tale. Pensava che non crescessi mai e voleva che rimanessi sempre tra le sue braccia.
Ricordo che ogni domenica era come una festa perché eravamo tutti insieme e, anche se a volte ci mancavano i soldi, l’amore che c’era in quelle mura era più forte dei problemi. Ma ovviamente non è sempre stato così. I tempi sarebbero cambiati anche per noi. “Quando la vita è troppo tranquilla, prima o poi dovrà pur ricevere uno strattone”, diceva mio padre per prepararci alla vita.
Alla fine degli anni ’70, dalle nostre parti, c’era solo la Stidda, ma non Cosa Nostra, che sarebbe arrivata poi in seguito. Vittoria inizialmente era come la terra del niente e di nessuno. Poi è diventata un’altra cosa.
Questo paese si posa su una bella piana limitata da due fiumi. Ha coste lisce e senza scogli. Ha anche un monticello un po’ bassino da cui la si può guardare ed ammirare. D’estate rifiorisce e d’inverno cambia faccia, ma in realtà è sempre la stessa. Sono anni che non ci vado e quasi mi sto dimenticando com’è.
«Vittoria è bella come te» mi diceva a volte mio padre quando vedeva i primi fiori lilla cresciuti sugli alberi dei giardini. È un posto che per quelli che abitano fuori dalla Sicilia è quasi sconosciuto o inesistente. Si sa poco e nulla della nostra terra. Era la città delle primizie… delle fontane… ma non della tranquillità come sembrava l’apparenza. Ci sono state stragi anche lì.
La mafia arrivò più tardi, quando io già ero grande. Non era forte come a Palermo o a Catania, ma comunque si fece sentire e ci fu una lieve mattanza tra il 1989 e il 1992: più di 100 morti ammazzati e tantissimi arresti. Ma nonostante tutto continuavano ad esserci, Cosa Nostra e Stidda, sempre vive più che mai.
Però si dice che Cosa Nostra non si sia mai impiantata per bene a Vittoria. Ma dagli anni ottanta in poi ci furono alcune faide ferocissime, regolamenti di conti, traffici di droga, riscossioni del pizzo, sparatorie in piazza e cadaveri trovati a pezzi nelle campagne… Niente da invidiare ai paesi più grandi insomma, e niente di cui potersi vantare.
Si dice che Vittoria, originariamente, era solo un grande bosco pieno di briganti e cani sciolti. Le terre erano come bruciate, un deserto incolto e disabitato da famiglie. Poi un bel giorno del 1600, arrivò la una contessa che si chiamava Vittoria Colonna Enriquez, moglie del viceré di Spagna, e trasformò tutto in un magnifico paradiso. Sembra una leggenda, ma questa è la storia.
Con il tempo ho imparato che anche una bella terra può nascondere l’inferno. La gente, e anche mio padre, bisbigliando descriveva la mafia come una malattia brutta e infettiva. Ma in realtà non era solo quello, spesso erano in grado di far girare l’economia anche da noi. Ma mio padre non voleva riconoscer loro neanche questo merito. Il popolo era diviso anche a Vittoria. C’era chi era simpatizzante per Cosa Nostra e chi invece no.
Per anni da Vittoria si esportava il vino in Italia e in Francia. Poi hanno distrutto le viti e ne hanno fatto dei campi di agrumi. Tra ciò che non si può definire una pianta, cresceva un forte partito socialista, ma, dopo la seconda guerra mondiale, arrivò un fortissimo partito comunista che poi diventò democristiano… ed era in periodo quel che gli uomini d’onore cominciarono a vedersi di più. In città cominciarono a girare i soldi, c’era anche chi era senza lavoro però. Ma come per magia tutti cominciarono ad avere una casa… due case, il primo ed il secondo piano, il giardino… e la villa sul mare. Come? Tutto abusivo, senza regole. Le amministrazioni comunali e i partiti stavano a guardare in silenzio e forse anche felici.
«Menomale che la mafia a Vittoria non esisteva… dicevano!» Altra frase di mio padre. «Picciridda chiudi la porta e vai su in camera che ora passa della gente… è meglio non vedere che fanno.»
Inizialmente non sapevo cosa volesse dire. Pensandoci ora avverto un senso di vuoto, perché ancora non sapevo che la mia vita sarebbe cambiata grazie a quella gente. Mio padre era un uomo buffo e docile. Spesso la sua età si leggeva nei suoi occhi, ma il suo sorriso cambiava tutto quando meno te l’aspettavi. Mi raccontava le storie come se volesse proteggermi dal mondo nel migliore dei modi: dicendomi la verità.
Non mi ha mai cresciuta nel sogno di Babbo Natale. Mi parlava sempre della realtà, spesso me la rendeva più ovattata, ma non ometteva alcun dettaglio. In quel modo sarei diventata forte, mi diceva. Ascoltare le sue storie a volte era dura per me che ero una bambina, ma questo non lo fermava, perché credeva in quello che faceva. Nonostante questo continuavo a crescere in un mondo fatato, perché questo è quello che era la mia casa per me. Con le mie bambole, le mie nuvole dipinte sulle pareti e i miei libri che leggevo fin da quando non sapevo ancora leggere.
Mio padre lavorava in una fabbrica di cinture. Infatti ne aveva tante e spesso le usava pure per mio fratello quando pensava che uscisse con i “ragazzi cattivi”. Non mi era molto chiaro perché sbagliasse, ma avevo talmente paura di quelle cinture che pensavo che mio padre avesse sempre ragione. Erano una punizione e facevo di tutto per non vederle in azione.
Quando avevo sedici anni, la vita non sembrava tanto diversa ai miei occhi. Ma tutto cambiò all’improvviso.
Una mattina mio padre bianco diventò! Le sue gote erano rosse come il fuoco per un solo attimo poi sembravano violacee e poi sempre più chiare… Mia madre urlava e sentivo il suo dolore che scorreva in me attraverso le sue grida. Per un attimo si fermò anche il mio cuore. Mi attraversò un ghiaccio dentro. Mio padre moriva e con lui se ne andava una parte di me. Il dottore disse che la sua anima ed il suo cuore erano stufi di stare in questo mondo. Ma io lo so cosa successe.
Poche ore prima, iddu arrivò, si mise a sedere sulla sua poltrona e non disse una parola. Ticchettava le dita sul bracciolo rotto, dalla parte in cui usciva il legno e ciondolava qualche filo e qualche pezzo di stoffa. Con l’altra mano si lisciava i baffi neri che aveva deciso di portare da diverso tempo.
Non salutò neanche la mamma quando arrivò. Entrò e andò sulla poltrona. Idda mi disse: «Robe’ vai su in camera che tuo padre arrabbiato fu. Lasciamolo stare, vedrai che dopo ci passa e possiamo mangiare tutti assieme come tutte le volte.»
Naturalmente io obbedii a mia madre, ma dentro di me sentivo una strana sensazione. C’era qualcosa di strano nell’aria. Mia nonna avrebbe detto che “i guai si sentono anche da un chilometro all’altro”, ma questo era un odore più forte, insopportabile e quasi soffocante.Poco dopo sentii sbattere la porta. Mio fratello Giuseppe era tornato.
«Giornata bedda al lavoro?» disse mio padre a mio fratello. Apparentemente sembrava tranquillo, ma non era così. Mio frate ci disse: «E certo. Però sono molto stanco. Oggi ci furono dei carichi pesanti.»
«E dimmi. Quando ci furono? La mattina o il pomeriggio?»
Sentii che mio frate tentennava a rispondere, esitava come se non sapesse cosa dire perché si aspettava il peggio e non riusciva più ad arrampicarsi sugli specchi. Quindi mi misi sulle scale ad ascoltare. Improvvisamente sentì un rumore fortissimo. Mio padre aveva buttato una sedia a terra. Mia madre urlò dall’altra stanza. Non avevo ancora capito bene cosa fosse successo e continuai ad ascoltare da dietro la porta della sala da pranzo. Mio padre, dalla rabbia, stava facendo tremare pure i soprammobili.
«Al lavoro? E quando ci sei stato al lavoro? Ti vedesti con chiddi!» Disse puntando il suo indice e il suo sguardo tremolante verso mio fratello. «Chiddi sono la peste della nostra città! Hanno la droga, le armi… Ce l’hai pure tu? E li porti in casa di nuatri? Cosa fai con quella gente? Ti trovai un lavoro per non farti diventare un nuddu ammiscatu cu nenti! E invece è chistu che diventasti! Niente!»
«Padre non fu proprio così che funziona. Stetti trovando un lavoro che porta più piccioli… Ecco perché fui con quei picciotti. Ma è gente brava te lo giuro!»
Mio padre sapeva che non era così. La Stidda o Cosa Nostra voleva adottare mio fratello e lui non esitava per la vista dei piccioli. Mio padre odiava quella gente perché un giorno trovò suo padre morto ammazzato perché si rifiutò di pagare il pizzo. Aveva sempre discusso con mio fratello anche per questo. Uno diceva che la mafia era un cancro e l’altro diceva che mio nonno trovò solo una mela marcia che premette il grilletto troppo in fretta, ma non sono tutti così…. Opinioni contrastanti che portano comunque ad uno stesso risultato. Mia madre dava ragione a mio padre tutte le volte e mio fratello finiva per stare zitto per non togliere il rispetto al nonno. Per mio padre non c’erano distinzioni fra Stidda e Cosa Nostra. Per lui erano uguali anche se in realtà non è così.
Ma quella sera stava per succedere qualcosa di brutto. Non avevo mai sentito mio padre arrabbiarsi in quel modo. Non era la solita discussione. Così continuavo ad ascoltare…
«Ammuccia ammuccia ca tuttu pari! Accucchia bruodu! Io ho fatto di tutto per tia e questo è quello che guadagno indietro? Delle bugie e un figlio che nuddu fa? Ora che decidesti di fare? Ti metti pure ad ammazzare la gente? Comincia ad onorare tuo padre invece!»
In poche parole, mio padre ci disse che più nascondeva la verità e più pareva tutto chiaro. E che lui era un nullafacente. Mentre lo diceva sentivo che mia madre lo calmava con una voce sconsolata e preoccupata. Sicuramente iddu aveva la vena sulla fronte che pulsava e quella sul collo che usciva fuori come se non potesse più respirare. Questa volta era proprio arrabbiato. Probabilmente lo sentivano urlare in tutta la strada.
In quel momento sentii mia madre urlare più forte, poi un tonfo e così io aprii la porta di colpo ed entrai nella sala da pranzo.Mio padre era steso a terra che si teneva il braccio come se qualcosa lo stesse perforando da dentro. Stava sforzandosi per compiere il suo ultimo respiro. Guardava mio fratello fisso negli occhi mentre diventavano rossi e con i capillari spaccati. Non sbatteva più le palpebre. Anche quelli della mamma diventarono come i suoi. Come se stesse sentendolo stesso potente dolore.
«Mamma!» urlai io.
Improvvisamente lo sguardo di mio padre si spostò negli occhi di mia madre e poi nei miei. Rimasero così mentre mia madre piangeva… Mio fratello andò a chiamare aiuto. Io versavo lacrime senza emettere alcun suono e senza fermarmi. Era cambiato tutto. Mio padre non era più con noi. Rimasi immobile a guardarlo andar via.
In realtà tutto accadde in 5 minuti, ma quando lo ricordo mi pare un attimo che durò una vita. E sento come se rivivessi quel momento adesso e lo stessi guardando negli occhi.
Ogni tanto sogno quel giorno e poi improvvisamente il sogno cambia e sento delle voci di giovani… Le mie, le tue. Mi giro e rivedo me da ragazza mentre correvo con te amore… Poi mi sveglio all’improvviso. A volte invece il sogno continua ed improvvisamente tu mi tieni la mano fino a scomparire e vedo degli uomini vestiti strani, seri, eleganti. Loro si avvicinano e mi fanno un cenno di saluto con la mano. So che devo andare con loro, poi sento un bambino chepiange ed il sogno finisce mentre tutto diventa buio.
Questo è uno dei miei sogni ricorrenti. Non so perché lo faccio e non so cosa vuol dire. Questo sogno mi ha fatto pensare che dovevo raccontare la mia storia ed imprimerla su delle pagine, perché il dolore che ho dentro ha bisogno di prendere forma, così che io possa stare meglio. Magari arriva anche come una richiesta d’aiuto alle tue orecchie. A te che ascolti e che hai preso il volo verso l’invisibilità. Ti sento, ma non ci sei. Non so dove sei. Quelli che lo sanno, non parlano.
È una sensazione strana che non posso descrivere per farla sentire a qualcun altro. Ma forse riuscirò a trasmetterla con le mie parole. Dopo la morte di mio padre, la Sicilia aveva una sua storia che si stava scrivendo, con il sangue e con i ricordi muti della gente che non racconta e fa finta di non vedere.
Passarono due anni dalla morte di mio padre. Era il 1982, io avevo diciotto anni e Cosa Nostra era diventata di Totò Riina. Ma non era sempre stata sua. Perciò iddu non aveva le colpe che hanno spento mio nonno e mio padre. Le scalate al potere non sono così tanto rare dentro Cosa Nostra e, anche se tu non hai avuto bisogno di scalare nessuna famiglia e non hai combattuto contro nessuna cosca, nel nostro paese è normale.
Ora penso che tutto sia successo per il destino: era destino che Riina diventasse così e lo stesso vale per tutti gli altri.Erano destinati a diventare quello che diventarono. Se lo sentivano e lottavano per vederlo vero davanti ai loro occhi e nelle loro mani.
In quel momento, io cominciavo a guardare in alto e a pensare che la vita è questione di attimi e che c’erano persone che se li sarebbero presi tutti questi attimi, se io non avessi fatto nulla per prendere i miei. Io dovevo iniziare a prenderli e smettere di rinchiudermi e farmi proteggere dalle quattro mura della nostra casa.
Mio fratello aveva preso la sua strada ed aveva una casa sua. Non lo vedevo più e ogni volta avevo paura che qualcuno lo trovasse morto ammazzato disteso in pezzi in qualche campagna o che venisse messo in prigione. Mia madre era diventata vecchia e stanca della vita, proprio come me adesso. Arrancava in tutto quello che faceva.
Non era l’età, semplicemente si era lasciata andare e faceva tutto come se fosse un dovere. Non aveva più voglia di vivere, gli mancava l’amore che le dava mio padre. Mi spiace dirlo, ma forse il mio non le bastava, ed ora capisco il perché.Tutti diciamo di essere in grado di stare da soli, ma la verità è che quando ti leghi forte a qualcuno e poi ti viene a mancare, ti senti vuoto, spiazzato e molte cose, che prima avevano un senso, smettono di averlo. Anche l’uomo più forte sentirebbe questo forte abisso dentro di sé.
Le sopracciglia di mia madre erano diventante grigie e sempre arricciate. Le solcavano il viso con forza. Nel suo volto riuscivo però a vedere ancora quelle fossette che la caratterizzavano e che l’avevano sempre fatta sembrare più giovane di quello che era in realtà. Non aveva donato molti sorrisi dalla morte di mio padre, rideva poco e non guardava nessuno negli occhi per più di qualche secondo. Era come se percepisse la pietà della gente e non voleva che questo la toccasse ancora. Sarebbe rimasta con me fino alla fine. Mi avrebbe voluta vedere all’altare con un uomo a posto. Questo è quello che credevo.
In realtà lei voleva che io me ne andassi a Castelvetrano ad aiutare mia zia. Non avevamo molti soldi e lì avrei potuto lavorare e vivere di più. Inoltre avrei potuto studiare a Trapani,se volevo. Quindi sarebbe rimasta da sola, ma solamente per farmi crescere meglio.
Io mi sentivo già forte e donna, ma non guardavo gli uomini perché non volevo trovarmi da sola e sofferente come mia madre. Cominciavo a capire che la mafia era più complessa di quello che pensavo e quasi avevo paura di trasferirmi, forse avevo quasi paura di vivere davvero perché non ero abituata a vedere oltre la porta di casa mia.
Sapevo che Palermo e Catania non erano e non sono la stessa cosa, non lo sono mai state e non lo saranno mai. Manon sapevo se la provincia di Trapani avesse due facce. Invece era proprio lo “zoccolo dorato della mafia”- è così che dicono – e ancora dovevo scoprirlo.
La Sicilia è un posto che nasconde tanti segreti e dove iltocco di Cosa Nostra inizia con un sorriso o uno sguardo e finisce con il silenzio. Perché ognuno di noi sa, ma se non può parlare bene di qualcuno, preferisce non parlare. È per questo che io non potevo sapere cosa mi aspettasse.
«A megghia parola è chidda ca nun si dici!» Avevo sentito dire spesso questa frase…
Tu c’eri stato amore mio. Avevi visto come funzionava laggiù. C’eri vissuto fin da piccolo. Ed io stavo per entrare nella vita della mafia trapanese. Ma quello che pensavo realmente era solamente che stavo per entrare in una nuova città, in una nuova vita e che stavo andando ad aiutare mia zia. Così preparai le mie valige e cercai di dormire.
La mattina dopo sentivo un freddo strano. Forse perché non volevo uscire di casa, non volevo lasciare mia madre.Mi stavo spazzolando e mi guardavo allo specchio pensando a come sarebbe stata la mia vita una volta uscita dalla casa dei miei genitori. Da una parte ero felice, ma il mio cuore batteva troppo forte e non riuscivo a emozionarmi positivamente.
È sempre difficile chiudere una porta ed andare verso dove non sai cosa succederà, vero? Un vero e proprio salto nel vuoto, che spesso fa paura.Ad un tratto sentii bussare alla porta.
«Roberta? Posso entrare?» Era mia madre.
Mi voltai verso la porta socchiusa, lei mi vide ed entrò lentamente. Il suo cuore stava davvero invecchiando, ma già sapevo che mi avrebbe fatto un discorso di incoraggiamento e che sarebbe riuscita a strapparmi un sorriso, e che io avrei provato a strapparlo a lei.
«Roberta… Ora stai per fare un viaggio e per vedere come può cambiare la tua vita in un posto un po’ più rinomato dove potrai andare in città e scegliere la tua strada.Tu non ti dovrai preoccupare di me. Però dovrai telefonarmi e mandarmi delle lettere perché voglio sapere come stai e vivere quello che vivi tu ogni giorno. Il tuo compito sarà di aiutare tua zia e di farti i tuoi primi soldi per prepararti al futuro. Mettili da parte e vedrai che la tua vita sarà migliore. Però tieni sempre gli occhi aperti e, quando ce n’è bisogno, la bocca chiusa… L’occhi su fatti pi taliare… ma attenta a chi guardi e non dare troppa confidenza agli sconosciuti. Ricordati che le ombre che coprono la Sicilia hanno ammazzato tuo padre e tuo nonno, e si portarono via pure a tuo fratello. Non ti fidare troppo di nessuno. Va bene?»
«Certo mamma farò come dici te.»
«E non fare quella faccia. Ora inizia la tua vita. Devi promettermi che sarai felice!»
Dicendo queste parole mi strinse il viso con le sue mani sempre calde che cominciavano ad essere ruvide e magre. Io le strinsi con le mie. Le sorrisi e mi scese una lacrima che lei mi asciugò con il pollice sinistro. Sentimmo suonare un clacson…
«Forza Roberta, andiamo! Zi’ Calò arrivò a prenderti.»
Tratto da L’Uomo d’Onore – 13Lab Editore